Il desiderio di leggere il libro che ha scritto Francesco Panetta, “Io corro da solo“, mi é venuto ascoltando casualmente una sua intervista. In quella occasione precisò che non il lettore non avrebbe trovato nessuna tabella, nessun consiglio per correre meglio o alimentarsi propriamente.

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La copertina del libro

Compresi che non era un libro dedicato a rinvigorire la passione agli amanti della corsa amatoriale. Non era neanche una vera e propria autobiografia. Mi colpì una sua frase: “Quello che mi piace della corsa é la sensazione di poter disporre del proprio corpo nella sua massima efficacia” (non é riportata fedelmente). Non é la solita banale risposta alla domanda “Perchè corri?”. Questa risposta andrebbe bene anche per la ginnastica o le arti marziali, per esempio.

 

Questa frase mi fece capire che quello che Panetta voleva raccontare era il puro agonismo, la sfida con se stessi e la lotta, leale ma anche feroce, con l’avversario. Questa frase mi convinse ad ordinare il libro. Per puro caso arrivò quando mi colpì una influenza. In questo caso la fortuna ci vide benissimo e con tanto tempo a disposizione da dedicare al riposo lessi il libro (130 pagine) tutto d’un fiato.

 

Alla seconda pagina lessi “Farò uno sforzo. […] Cercherò di spiegare qualcosa che non é spiegabile a quelli che corrono “like a dj” che, aspettando intruppati fra tanti altri come loro, infreddoliti, sudati spesso annoiati da ore e ore d’attesa prima di passare sotto una linea di partenza e poter finalmente esclamare  parto (esempio) per la maratona di New York[riporto fedelmente rispettando la punteggiatura impropriamente usata come nel resto del libro]. Ci sarà da divertirsi nelle prossime pagine, pensai. Questo libro andrà di traverso ai lettori dei libri di Murakami, Linus, Baldini, ecc.

 

In realtà le frasi potenzialmente irritanti finiscono qui. Tutto il resto del libro racconta episodi di una vita dedicata allo sport senza disdegnare i divertimenti e le avventure di un diciottenne arrivato da solo in una città come Milano da un paesino calabrese. L’infanzia in cui i giochi si confondevano con le angherie dei ragazzi più grandi gli ha lasciato la rudezza del carattere. Sempre una risposta pronta e provocante con avversari, giornalisti, allenatori. Ma anche grande fedeltà e riconoscenza con avversari leali, compagni di squadra e membri del suo tema sempre pronti ad aiutarlo. Traspare una grande considerazione di se stesso, che a volte arriva ad essere sfrontatezza e raramente anche un po’ arroganza. Tutto ciò, però, non lo rende antipatico. Questi sono tratti tipici dei campioni che hanno la consapevolezza dei propri mezzi.

Arrivato alla fine del libro resto leggermente deluso. Dopo le prime pagine si esaurisce quello che più mi aspettavo da questo libro, cioè i pensieri di un atleta che per qualche anno é stato ai vertici dello sport e le opinoni di una lingua che non risparmia parole scomode. La delusione é solo colpa delle mie aspettative. Se provo ad eliminarle, sento che il libro mi ha lasciato la figura di un campione di cui in molte occasioni non avrei approvato il comportamento. Un cavallo pazzo, che non nasconde il suo carattere e il suo pensiero.

Il libro é stato scritto con la supervisione di un giornalista (Walter Brambilla) che in prefazione dice di aver corretto poco. In effetti l’italiano é povero e colloquiale, la punteggiatura sostanzialmente messa a caso e almeno 4-5 errori ortografici sfuggiti ai correttori. Questo potrebbe turbare qualche perfettino (ehm … ), ma in fondo rendono l’idea di un colloquio vero, reale, personale, sincero. Niente a che fare coi tweet o i post dei Social Media Manager di tanti atleti attuali, sempre con foto perfette e frasi che sembrano massime di Seneca.

Mi sono chiesto perchè ha scritto questo libro. Che necessità aveva? Lui che non ha mai scritto niente, ogni tanto fa il commentatore per la Rai ma che con la corsa ha chiuso. Mi sono dato una risposta che non so quanto possa essere vera. Questi sono tempi in cui l’atletica é in crisi mentre la corsa in tutti i suoi aspetti “amatoriali”. Mi sembra che Panetta voglia ricordare i tempi in cui se non facevi i 10 km in 30′ non correvi, facevi jogging. L’atletica era una cosa da pochi eletti, non da masse infinite che invadono le strade di metropoli per guadagnarsi una delle decine di migliaia di medaglie che quel giorno verranno assegnate.

Opinione che (se fosse vera) io non condivido del tutto ma rispettabilissima quando la dice uno che é stato al vertice assoluto e che in Italia nei 3000 siepi non é ancora stato battuto. Ancor più rispettabile visto il fatto che una volta che non é stato più in grado di essere al top ha smesso completamente di correre e non ha mai sfruttato in termini economici l’immagine che le sue imprese avevano creato.

L’argento di Panetta mei 10000 metri ai mondiali di roma 1987


L’oro nei 3000 siepi dei mondiali di Roma 1987

Un episodio famosissimo. Europei di Helsinky 1994. Panetta rialza Lambruschini che poi vincerà la gara e diventerà campione europeo

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